È stato un anno complicato da molti punti di vista: luci ed ombre e tante incognite sul futuro che ci attende. Il fronte internazionale è sotto gli occhi di tutti ed è sospeso nell’incertezza: non sappiamo come andrà in Ucraina, in Medio Oriente, negli USA diretti da Trump, nella stessa UE con l’incognita della situazione politica in Francia e in Germania. Si tratta di un orizzonte di cui facciamo parte e dunque quel che succederà ci riguarda direttamente.
Soffermiamoci però per ora sulla nostra situazione interna. A livello politico godiamo, a confronto con molti partner europei, di una certa stabilità. La coalizione di destra centro rimane saldamente al governo, pur con incrinature che si sono progressivamente manifestate. Il quadro uscito dalle elezioni europee dell’8-9 giugno tiene, senza esprimere una egemonia totale.
Confermata la preminenza di FdI allora col 28,7% dei consensi (un successo da attribuirsi al traino della Meloni), consolidata la prevalenza del PD come secondo partito col 24,1% (il che ha rafforzato la leadership della Schlein). Attorno solo partiti decisamente minori, qualcuno in netto calo (Lega 8,9 nonostante la virata estremistica con Vannacci, M5S 9,9), altri in allargamento (FI 9,5%, AVS 6,7%). Disintegrato il “centro” per le divisioni fra Renzi e Calenda che spartendosi quasi a metà un non disprezzabile 7% non sono riusciti ad ottenere seggi per lo sbarramento al 4%. Se i sondaggi fino ad oggi confermano più o meno questo stato di cose, altrettanta conferma viene dal dato delle astensioni che alle Europee fu del 50,3%. A convalidare questo trend non sono i sondaggi ma l’andamento di tutte le elezioni comunali e regionali che si sono tenute.
La stabilità non deriva però da una granitica coesione della maggioranza, così come la debolezza delle opposizioni non spiega tutto. La coalizione al governo tiene perché non ha alternative e dunque le lotte interne hanno scarsa capacità di incidere: Giorgia Meloni ha una posizione personale che non può essere scalfita, perché FdI l’ha plasmato e portato al successo lei; Salvini vorrebbe ridimensionarla, ma non ha alleati con cui possa creare un altro governo attorno a lui. Quando questi prova a rivendicare il “rimpasto” per tornare al Quirinale è stoppato da tutti (compresi i suoi, più o meno dietro le quinte). Le opposizioni non riescono a coalizzarsi. Schlein non ha le doti del capo riconosciuto per storia personale (lasciamo perdere quelle del capo carismatico). I Cinque Stelle sono stati imbrigliati nella lotta dei loro capi per sbarazzarsi della presenza, ingombrante, ma ormai inutile, di Grillo. Il loro leader Giuseppe Conte è ossessionato dall’aspirazione a presentarsi come alternativo per purezza secondo vecchi stilemi (a partire dal pacifismo), ma al tempo stesso cerca di muoversi nella più classica politica politicante per guadagnare qualche poltrona. AVS è espressione di un ambiente di nuova sinistra radicaloide, ma deve seguirne gli istinti (con una certa abilità) mentre non è in grado di indirizzarla dentro un progetto politico realista.
La nebulosa del “centro” è parallelamente alle prese con un elettorato potenziale che vorrebbe sottrarsi ai radicalismi che azzoppano il sistema, ma che è frammentato in una miriade di correnti (e anche di interessi) restie a dar vita ad un soggetto politico unitario.
Se si pone attenzione a questo quadro si capisce perché quando dal sistema nazionale si scende ai livelli locali la tenuta dei due blocchi si mostra debole. Nelle elezioni comunali e regionali successi e insuccessi sono stati determinati da caratteristiche presenti nei diversi contesti: quando una delle due coalizioni ha saputo approfittarne ha vinto (la destra in Basilicata e in Liguria; la sinistra in Sardegna -sul filo di lana- in Umbria e in Emilia Romagna). Altrettanto si potrebbe dire per le elezioni comunali, ma il discorso diventerebbe troppo lungo.
Se passiamo a valutare il contesto economico e l’attività di governo, tutto è molto mosso. L’economia va benino, e il governo se ne fa vanto (lo spread è a livelli molto bassi, la Borsa ha guadagnato il 12,55%, le statistiche dell’occupazione sono buone, il Sud conosce uno sviluppo inatteso). Però la situazione è a macchie di leopardo: troppo ampia la fascia di persone strette alla gola da salari e stipendi molto bassi (gli interventi del governo sono apprezzabili, ma non risolutivi), crisi evidente in alcuni settori (dell’automotive parlano tutti, ma altri comparti soffrono a partire dal tessile), eterna questione di un sistema fiscale che consente un livello insopportabile di evasione e di elusione.
Anche l’attività di governo è gravata da una situazione piuttosto squilibrata. Meloni ha conseguito risultati interessanti nella politica internazionale (emblematico il successo nell’ottenere la vicepresidenza della Commissione UE per Fitto), ma ha registrato impasse per il suo disegno di riforme. Paga anche il prezzo di aver ceduto alle pretese identitarie presenti nella coalizione e nel suo partito: così l’autonomia differenziata è stata disintegrata dalla Corte Costituzionale, la proposta sul premierato giace in fondo ad un cassetto perché è stata progettata così male da non potere affrontare un serio vaglio, la legge di riforma del sistema giudiziario innesca una specie di guerra di religione assai pericolosa (i magistrati col loro corporativismo non ci fanno bella figura, ma tant’è).
Dovremmo concludere il nostro bilancio constatando che le ambiguità sono tali da rendere difficile qualsiasi previsione ragionevole. Cavarsela dicendo che tutto dipenderà dall’evoluzione del quadro internazionale non è falso, ma è ipocrita: poiché questo è noto, sarebbe il caso che qualche strategia per sciogliere le ambiguità venisse concepita. È compito del governo quanto dell’opposizione, ma anche di una opinione pubblica che si spera si svegli dall’oppio del bearsi a godere di dibattiti di maniera riproponendo vecchie parti in commedia.