Unità tra le fedi, non tutto è perduto

La grande speranza, che sempre accompagna la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio) è messa quest’anno a dura prova. Una prova che va oltre il già difficile cammino ecumenico. Il mondo intero è sotto scacco di 56 guerre. Si fa scempio della dignità umana e in molti Paesi – vedi il recente Rapporto – la persecuzione religiosa è regola. Sopra ogni altra cosa urge la pace, che resta uno degli obiettivi dell’attività ecumenica; un terreno comune su cui camminare insieme verso l’unità, cristiani di varie confessioni. Una quercia di Mamre sotto la quale sperimentare la freschezza della condivisione e dell’arricchimento reciproco.

Quest’obiettivo ambizioso, perseguito con difficoltà e crescenti successi fino a febbraio 2022, è stato spezzato brutalmente dall’aggressione russa all’Ucraina, scompigliando i rapporti tra cattolici e ortodossi, ma pure all’interno delle stesse comunità ortodosse. A Mosca il Patriarca Kirill (uomo di Dio o emissario del KGB?) prega per la vittoria di Putin, benedice le armi, consacra chiese dedicate all’esercito. In Ucraina la comunità ortodossa si frantuma in tre Chiese scismatiche. Una è posta fuori legge in quanto appartenente al Patriarcato moscovita. Un’altra, maggioritaria, pur denominandosi chiesa ortodossa ucraina e rinunciando alla menzione canonica del Patriarca Kirill nella liturgia, è comunque sospettata di essere filorussa. Solo la terza, che si riconosce nel Patriarcato di Costantinopoli, gode del favore del regime. Sono le “ragioni della politica”, e non più quelle della fede, a irrompere nella vita dei fedeli. Non solo in Ucraina: con modalità diverse, anche a causa delle emorragie di fedeli dovute alle guerre e alle migrazioni, in altre parti del globo le Chiese (non solo quella cattolica) subiscono imposizioni e persecuzioni da parte dei regimi politici. Sembra così allontanarsi quell’inizio di primavera dei primi anni del nuovo secolo, segnati da un duplice percorso di dialogo tra cristiani: quello ufficiale, diplomatico, e quello molto più umano e promettente, “dal basso”, tra piccole comunità o singoli fedeli. Ciò che accade in Israele, a Gaza, in Libano, in Siria, in Sudan, in Nicaragua e in molte altre nazioni pone in secondo piano il problema del dialogo tra confessioni cristiane essendo là in pericolo la stessa sopravvivenza delle Chiese cristiane.

Non tutto è perduto però. Se la guerra ha prodotto un rallentamento nel dialogo tra gli ortodossi e le altre comunità cristiane, queste si sono spesso ritrovate insieme nell’aiuto alle popolazioni colpite dalla guerra. Esempi al riguardo non mancano e iniziative congiunte di cattolici, protestanti e pure ortodossi della diaspora a favore dei popoli oppressi dalla guerra, e non solo per l’Ucraina, si ritrovano anche nelle nostre regioni. Ecco una forma di ecumenismo pratico.

Se è pur vero che molti canali di dialogo si sono interrotti a causa della guerra, non tutti i fili si sono però spezzati: sono ancora numerose le associazioni e singole persone che mantengono collegamenti amichevoli con loro corrispondenti dell’ortodossia (e ovviamente anche del protestantesimo): su questi, più che sulla pur lodevole iniziativa diplomatica, è necessario puntare perché i rapporti umani sono sempre vincenti come mostrarono le esperienze di alcuni preti trentini antesignani nel dialogo con gli ortodossi: Nilo Cadonna, Romano Scalfi e Silvio Franch.

Giocherà infine un ruolo chiave la preghiera per l’unità, che diviene in questo contesto di guerre, anche preghiera per la pace.

*trentino, a Padova è stato promotore del dialogo ecumenico e fondatore con padre Nilo Cadonna del Centro Solov’ev

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