“Residenza Fersina”: si chiuda il modello

Sulle condizioni critiche nell’ex caserma di via al Desert di Trento, che ospita 280 richiedenti asilo, sono arrivati questa settimana due segnali che non possiamo ignorare. Il primo: solo una cooperativa di Canicattì ha risposto al bando (ma la sua offerta non aveva i requisiti validi) per la gestione della “Residenza Fersina”, che ora sarà prorogata almeno fino a giugno. Il secondo: due operatori hanno denunciato ai microfoni di Laura Galassi per la Rai regionale una situazione ancora di “enorme disagio” con “azioni di microcriminalità”, per cui “gli ospiti stessi hanno paura”.

Ma fino a quando? Fino a quando da questa situazione esplosiva alla “Fersina” scoppierà un episodio di violenza, già sfiorato in passato…?

L’urgenza ha spinto i sindacati FP-CGIL, Fisascat-CISl e UILTucs a chiedere subito un ennesimo incontro alla Provincia e al Commissariato del Governo, per rappresentare pure la precarietà degli operatori e degli stessi ospiti rispetto ad una gestione ormai più volte prorogata. La stessa cooperativa Kaleidoscopio, che ha dovuto coraggiosamente fare i conti con un quadro di risorse ridotte rispetto al passato e di normative sempre più rigide (vedi “Decreto Cutro”), non ritirerà la propria disponibilità, ma chiederà per il futuro una cornice che dia garanzie e prospettive.

Valorizzando questa fase preelettorale che deve favorire uno sguardo più lungimirante sul Trentino di domani vogliamo lanciare una richiesta più esigente: perché non cogliere la scadenza della necessaria chiusura al 31 dicembre dello stabile di via al
Desert (sull’area sorgerà il nuovo ospedale di Trento) per arrivare a chiudere non solo le porte dell’ex casermone, ma anche un modello che a detta di quasi tutti si è rivelato per tanti aspetti fallimentare, favorendo più l’emarginazione che l’integrazione? Ci riferiamo alla scelta della Provincia – era l’anno 2018 – di avocare a sé anche la gestione dei CAS, i Centri di Accoglienza Straordinari, che nelle altre province e regioni vedono protagoniste invece le prefetture e le amministrazioni dei municipi sostenute dall’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani.

Una delle conseguenze negative di questa strategia di dirigismo provinciale sta nel fatto che molte strutture CAS (Centri di Accoglienza Straordinari) non sono mai state riconvertite, così da rientrare fra quelle del sistema SAI, ovvero quel Sistema di Accoglienza e Integrazione che supera la fase emergenziale per fondare progettualità di lungo periodo. Si è invece preferito concentrare tante persone in poche strutture, la più grande delle quali è appunto quella che in riva all’omonimo torrente Fersina rappresenta oggi per molti migranti una brutta ”ultima spiaggia” dalle quale andarsene prima possibile.

Basta leggere il lavoro etnografico di Paolo Boccagni, sociologo a Trento, dal titolo “Vite ferme. Storie di migranti in attesa” (Il Mulino) che ha raccolto attese, emozioni e frustrazioni degli ospiti nelle loro stanze, “spazi di solitudine ricercata, o più spesso subìta”. Dove – lo sappiano – vivono anche soggetti molto fragili e vulnerabili, bisognosi di ben altre accoglienze.

In sintesi vorremmo che – sulla scorta dei positivi risultati documentati (vedi Caritas) dalle comunità coinvolte nell’accoglienza diffusa anche nelle valli – il dibattito su “quale modello di accoglienza” fosse affrontato nei Comuni, così che i futuri amministratori (appoggiandosi al loro Consorzio) potessero “spingere” la Giunta provinciale ad un tavolo in cui trovare insieme soluzioni umanamente più degne e socialmente generative. Sarebbe il miglior esempio di un’autonomia ancora sana, consapevole che sono proprio i migranti (nel turismo, nei servizi di cura, nelle industrie e nel terziario) a tenere in piedi il nostro Trentino nella sua economia e nel suo autunno demografico.

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