Gaza, la strage continua. Così Netanyahu ricompatta il governo

Edifici distrutti nella Striscia di Gaza foto AFP/SIR

La strage continua, violenta. Si sperava che l’accordo di cessate il fuoco del 19 gennaio fra Israele ed Hamas potesse tenere almeno fino all’apertura della seconda fase del cessate il fuoco, prevista per marzo. I pessimisti hanno avuto ragione. Le carte in tavola sono cambiate. I bombardamenti, questa volta con aerei e droni, sono ricominciati in attesa che entrino in battaglia anche le truppe di terra di Tel Aviv.

Le Nazioni Unite calcolano che il numero di morti palestinesi abbia superato dopo un anno e mezzo di guerra lo spaventoso numero di 50mila. Il 2,1% dell’intera popolazione di Gaza calcolata in 2.3 milioni di abitanti. Almeno il 70% sono donne e bambini. Sopravvivono ancora i guerriglieri di Hamas che non si sono trattenuti dal mostrare con baldanza le loro schiere durante le fasi del rilascio di alcuni ostaggi e che alla ripresa dei bombardamenti hanno perfino lanciato qualche razzo verso Israele.

Se uno degli obiettivi di Benjamin Netanyahu era quello di mettere a tacere Hamas si può dire che il “lavoro” è stato compiuto solo a metà, mentre ancora 59 ostaggi, di cui forse 24 vivi, sono scomparsi nei tunnel dei terroristi.

L’unica novità su questo fronte sono le prime manifestazioni di palestinesi contro Hamas e per la cessazione delle ostilità. Due i motivi principali della ripresa dei combattimenti. Il primo è certamente la drammatica confusione che in un quadro di per sé molto complesso ha portato l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. L’osceno video con Trump e Netanyahu sulle sdraio in riva al mare della Riviera di Gaza era in realtà un messaggio molto esplicito. I Palestinesi devono andarsene da Gaza. Di qui la richiesta del Presidente americano ad Egitto, Giordania e Emirati Arabi di “ospitare” i profughi. Per ora i paesi in questione hanno rigettato la proposta, ma con il passare del tempo cominciano a manifestarsi alcuni atteggiamenti ambigui, come l’indiscrezione sulla possibilità per il Cairo di collocarne mezzo milione nel deserto del Sinai. Questa idea, per quanto apparentemente balzana (se non criminale), ha ricompattato il governo israeliano ormai in crisi per l’uscita dalla compagine dell’estrema destra e soprattutto del suo campione più radicale Itamar Ben-Gvir. Si sta in altre parole facendo strada nel governo di destra israeliano l’ipotesi di annettersi Gaza (ceduta ai palestinesi nel 2005 dal leader pacifista israeliano Ariel Sharon) e di orientare poi le proprie attenzioni espansionistiche alla Cisgiordania vero obiettivo di Netanyahu: il progetto di Grande Israele.
Il secondo motivo della rottura della tregua è dovuto proprio alle difficoltà interne al governo di Tel Aviv dopo il temporaneo distacco della destra religiosa. Ma anche alle accuse di corruzione che alcuni stretti collaboratori del primo ministro stanno subendo (il cosiddetto “Qatargate”). Cui è da aggiungere la decisione di Netanyahu di cacciare il capo dei servizi segreti interni, Ronen Bar, per non avere previsto l’attacco del 7 ottobre.

Di fronte a questi problemi politici interni, per ricompattare il governo la ripresa della guerra era il metodo più semplice che avrebbe permesso di chiamare nuovamente a raccolta la maggior parte degli ebrei ancora preoccupati dalla sfida esistenziale del nemico esterno. Va infatti sempre ricordato che Hamas nega il diritto all’esistenza di Israele. Come era evidente il riaccendersi delle ostilità ha avuto immediatamente reazioni e contraccolpi a livello regionale. Sono ricominciate le schermaglie al confine con il Libano con accuse reciproche di avere violato gli accordi fra Hezbollah e Israele.

Sul fronte ad est di una Siria ancora indecifrabile, dopo la presa del potere del nuovo presidente Ahmed al-Sharaa, Israele ha deciso di ampliare ulteriormente il territorio sotto le alture del Golan, estendendo il proprio controllo verso Palmira. Sempre nell’ottica del Grande Israele. Né si sono fatte attendere le reazioni dei ribelli Houthi nel profondo sud dello Yemen i cui lanci di missili minacciano il traffico marittimo verso il Mar Rosso. In questa zona subentrano a fianco di Israele gli Usa di Trump con ripetuti bombardamenti sulle postazioni dei ribelli filo-iraniani. Perché poi a rischiare di rientrare nella contesa è la stessa Teheran, vero dichiarato nemico di Tel Aviv. A poco sembrano per il momento contare le minacce di Trump di attaccare l’Iran o di aggiungere nuove pesanti sanzioni. Insomma, si riaccende il grande incendio che riporta l’intero Medio Oriente sull’orlo di una crisi senza sbocchi. Ritorna in voga lo slogan del passato che definiva la lotta fra Israele e la Palestina come la madre di tutte le battaglie e di tutte le instabilità in Medio Oriente. Ad alimentarlo ulteriormente è il crescente odio fra i palestinesi di Gaza e gli israeliani. Odio che l’azione iniziale di Hamas e la reazione parossistica di Israele non hanno fatto altro che accrescere. Non bisogna mai dimenticare che Hamas è un movimento terroristico e come ci insegnano le esperienze del passato non è con una guerra classica che si combattono questi fenomeni.

La guerra classica lascia morti innocenti sul terreno e accresce alla fine la resistenza e la forza dei movimenti terroristici, pronti a portare al di là dei confini, anche in Europa, le loro lotte. La pace non si ottiene così. Ma né Netanyahu né Trump ragionano in questi termini.

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