Cinquecento anni di propaganda e fake news

“Chiediamo che ogni comunità possa esercitare il potere e il diritto di scegliere e di nominare direttamente il suo parroco. E che la stessa comunità abbia il potere di sostituirlo se questi non si dovesse comportare adeguatamente”. Cominciava con questa richiesta, l’elenco delle “rivendicazioni” che, esattamente cinquecento anni fa, portò alla rivolta dei contadini tedeschi – “Der Deutsche Bauernkrieg” – che in poche settimane, partendo dai piccoli centri della Foresta Nera, si espanse in gran parte dei territori della Germania, del Tirolo e arrivò sino alle valli trentine dove quella sollevazione popolare viene ricordata come “Guerra Rustica” e interessò essenzialmente la Val di Fiemme, la Valsugana e le Valli di Non e di Sole.

I Dodici Articoli contenevano richiesta di ordine ecclesiastico, ma soprattutto di ordine economico e sociale. La domanda delle comunità di poter nominare direttamente il parroco era legata essenzialmente ai privilegi che spettavano al clero e ai nobili. L’articolo due, infatti, precisava che “la decima servirà soltanto al sostentamento del parroco scelto da noi. Il resto sarà conservato o diviso tra i bisognosi secondo quanto risulta dalla Scrittura”. E ancora, sintetizzando gli altri articoli, la richiesta di abolire la schiavitù della gleba, di prevedere la riduzione delle prestazioni e dei servigi: “quando un signore ha bisogno di un servigio, il contadino lo fornirà obbediente e volentieri. Lo farà però nei giorni e nelle ore in cui non gliene può fornire un danno e in cambio di adeguato compenso in denaro” (art. 6). E ancora: la rivendicazione per la libertà di caccia e di pesca e quella per poter disporre dei boschi e dei pascoli come patrimonio collettivo e non di proprietà del signore del paese.

Cinquecento anni dopo (la Guerra dei contadini finì nella primavera del 1525 e fu una vera carneficina: si stimano almeno 100mila i contadini uccisi) vale la pena sottolineare che quella rivolta fu il frutto di un sistema di comunicazione che il mondo sino ad allora non aveva conosciuto.

L’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, a metà del Quattrocento, aveva reso possibile la trasmissione delle idee attraverso “foglietti” che, per usare una terminologia che oggi conosciamo benissimo, “diventavano virali”. Lo ricorda anche lo storico trentino Francesco Filippi in “Cinquecento anni di rabbia” (Bollati Boringhieri, 2024) che mette in evidenza lo stretto rapporto tra “rivolte e mezzi di comunicazione, da Gutenberg a Capitol Hill”.

La comunicazione mette in relazione le persone, consente di condividere le idee, le aspirazioni, le paure, la rabbia.

Cinquecento anni fa, i foglietti hanno rappresentato un vero e proprio tsunami: i “dodici articoli” divennero dei best seller, raggiungendo in soli tre mesi una “tiratura” (stimata) di 25 mila copie. Ciò che in quel momento ha rappresentato una straordinaria occasione di conoscenza, di scambio di idee, di libertà, conobbe però – quasi subito – la reazione e le contromisure dei poteri costituiti.

Una sorta di paradigma di ciò che stiamo vivendo anche noi in questi primi decenni del Terzo Millennio: le nuove tecnologie e i social ci danno l’idea di poter disporre di informazioni senza mediazioni, di poter godere di una assoluta libertà di informazione, di poterci fare un’idea senza condizionamenti. Una convinzione che si sta rivelando sempre più effimera: i social e le tecnologie sono sempre più nelle mani di poche persone che dopo aver perseguito la logica del profitto, oggi cercano di aggiungere anche quella del potere. Inchinandosi (per ora, ma poi i ruoli potrebbero invertirsi) alle richieste di un presidente degli Stati Uniti che si è mostrato il più accondiscendente nei loro confronti. Dalle grandi strategie, alle cose persino più ridicole. Provate a cercare su Google Maps la cartina del Centro America: la denominazione del Golfo del Messico ora è accompagnata (seppur tra parentesi) dalla nuova indicazione: “Golfo d’America”. Quando si cambiano i nomi sulle carte geografiche non è mai una bella cosa.

I social si sono trasformati in vere e proprie fabbriche di fake news: notizie non vere costruite ad arte.

Ma anche la scelta dei temi, la capacità di imporre una questione come la più importante rispetto alle altre. Si costruisce un clima d’opinione che poi – come conseguenza naturale – produce scelte politiche.

Con i social – l’esempio non ha bisogno di esplicitare il protagonista – si può entrare a gamba tesa negli affari degli altri Stati; si possono infangare reputazioni ed esaltare gli amici; si possono costruire narrazioni inverosimili, ma che vengono spacciate come verità; si possono bullizzare gli alleati scomodi e giustificare – sempre e comunque – gli alleati più fedeli.

Si possono persino “inventare i colpevoli”. Definizione che richiama il titolo della mostra che il Museo Diocesano organizzò nel 2019 per ricordare la vicenda del Simonino. Una storia di 550 anni fa (il piccolo Simone scomparve di casa la sera del 23 marzo 1475) con cui la città di Trento è ancora chiamata a fare i conti. Ma che dimostra che le fake news sono sempre esistite. Oggi è solo più facile diffonderle e farle creder vere.

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